In viaggio cent’anni
Marquez si ispirò ad Aracataca e a tutta la zona bananiera limitrofa quando scrisse Cent’anni di Solitudine, e a dire il vero, tolto qualche motociclo sganderato e un soffio di civiltà moderna, un po’ di quella magia si respira. Aracataca sembra davvero voglia prendere per mano Macondo, quella città fantastica, e darle la propria identità, lasciandole tutto, fino a dimenticare il proprio nome. O forse è solo ciò che immagino io.
Gli insetti di Macondo, arrivo a tarda notte
Preoccupato per l’arrivo a notte fonda e senza uno straccio di prenotazione, chiedo all’autista se sia il caso fermarsi ad Aracataca o sia meglio cercare ospitalità in una città più grande, dove le possibilità di trovare un alloggio non si riducono a luoghi di fortuna. Come immaginavo conferma che a Macondo non c’è nulla e mi consiglia di tentare la sorte a Fundacíon, un pueblo a 5 chilometri da Aracataca. Non lo vedo comunque convinto.
L’entusiasmo comincia a scemare, sto viaggiando da undici ore e l’ultima cosa che desidero è dormire in strada. Non ho più 20 anni. Vengo da San Andres, un’isola colombiana a largo del Nicaragua. Un aereo e due autobus mi hanno portato qui solo adesso, e se butta male non giungo a destinazione per 5 miseri chilometri. Domattina mi toccherà richiudere lo zaino, aspettare un mezzo e concludere un viaggio semplice in due di tempi. Se butta peggio mi toccherà trovare un buco dove coricarmi e contare le bestemmie per addormentarmi. In realtà un posto c’è ad Aracataca e ovviamente si chiama Hostal Macondo, l’ho letto da qualche parte, ma a quest’ora non aprirà le porte a nessuno, è da mettere in conto. Mi addormento e mi affido alla saggezza dell’autista.
“ARACATACA!” Apro gli occhi, raccolgo tutto e scendo al volo. L’autusta mi ha lasciato davanti a l’Hostal Macondo senza che io gli avessi menzionato nulla. È aperto e un tizio mi dà il benvenuto. Macondo ha deciso di aiutarmi, questa è la sua prima magia.
Va da dio, vedo un frigorifero e mi faccio stappare un Aguila, la birra che va per la maggiore in Colombia. Compilo le solite cazzate e mi siedo. Siamo all’aperto sotto un grosso portico e volano tutti gli insetti del mondo. In effetti queste sono le uniche luci accese in tutta la zona e ogni bestia della notte si riunisce qua per la propria dose di luce artificiale. Il posto è un cesso, mi aspetto una camera altretranto orribile e invece mi danno le chiavi di una stanza pulita e accogliente. Esco e faccio quattro chiacchiere col custode su Gabriel Garcia Marquez, ma in realtà parlo quasi da solo. Per terra è un cimitero di scarafaggi a zampe all’aria e preso dal vola vola generale mi sembra di avere ogni insetto addosso. C’è chi vola, chi plana, chi si posa, chi cammina, è una festa. Uno scarrafone volante si posa infine sulla maglietta del custode che non sembra dargli molto peso. Lo avviso della visita e con tutta calma lo toglie, ma solo perchè fa schifo a me. L’epilogo della giornata ha luogo quando l’uomo si schiaccia una zanzara sul dorso della mano e capisco che è ora di andare in camera. Le bastarde non mi avranno.
Macondo!
La casa del Gabo
Ad un tratto mi rendo conto che non ci sono turisti, che uno dei luoghi più magici d’America Latina sembra dimenticato. Non me lo spiego, Aracataca è molto di più che la città nativa del suo patron El Gabo. Forse non tutti sanno che Macondo esiste e si trova qui.
Pochi passi prima della casa di Marquez si avvicina un ragazzo che sembra autistico, ma forse non lo è. Mi chiede da dove vengo e ad un tratto, senza quasi prendere fiato, comincia a raccontarmi la storia di Aracataca dalla sua fondazione. Nessuno gli ha chiesto niente ma non sembra volersi fermare. Vorrei svincolarmi ma mi fa pena. Capisco che vorrebbe accompagnarmi nella casa ma non glielo permetto e lo driblo. Questo è un momento tra me e il Gabo. Se all’uscita il ragazzo sarà ancora lì, ci farò una chiacchierata.
Così sarà.
Il giovanotto macondiano
Non vi parlerò della casa in cui Marquez visse durante l’infanzia, è un salto nel tempo e chi avrà occasione lo farà. Questo è quanto, Macondo è la fuori. Ho firmato un libro degli ospiti e se qualcuno ci andrà cerchi il mio nome sul 12 luglio 2017.
Il ragazzo è lì ad aspettarmi, come immaginavo. È un po’ deluso. Me lo dice, voleva raccontarmi di Aracataca e Marquez perchè si annoia. Gli chiedo quindi di portarmi al murales del Gabo e di raccontarmi qualcosa. Mi parla quindi di alcuni edifici di Aracataca e di cosa fossero originariamente, della ferrovia, della zona bananiera, di Leo Matiz (il celebre fotografo colombiano), di Marquez ovviamente, della cultura e della geografia colombiana, della musica ed altro. È una miniera di informazioni, sa tutto di ogni angolo della città e pare che abbia una memoria sopraffina per le date e gli avvenimenti. Parla come Buba di Forest Gump e per questo dopo un po’ è ubriacante, ma resisto finchè mi balena nel cervello un ristorante che ho visto sulla calle per la ferrovia. Ciò che dice è interessante ma mi è venuta fame e lo invito a pranzare con me, glielo devo poretto. Sto giro lo porto io e gli indico la strada del ristoro che avevo addocchiato. Per 2 euro totali abbiamo ordinato due piatti sostanziosi di riso saltato e due bibite, incredibile. Il ragazzo, di cui purtroppo non ricordo il nome (forse non me l’ha detto), ha 29 anni se non erro e una volontà pazzesca, il pranzo è più che meritato. Per mangiare si spegne, ma finisce il riso quando io ancora non sono a metà e ricomincia a macinare parole. Ancora due chiacchiere su un vecchio cantante di vallenatos e mi svincolo. Pago, ringrazio il chico e gli allungo 5000 pesos per la gentilezza e tutte le preziose informazioni. Mi congedo salendo su un camioncino che porta a Fundacìon. Devo prendere il biglietto per Medellin.
Un po’ di magia coi bambini
NEL CASO VI FOSTE PERSI I GIORNI PRECEDENTI:
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