Giorno 61, sulle tracce di Macondo e della profezia di Melquiades

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In viaggio cent’anni

20170915_164903Mai avrei immaginato di raggiungere Aracataca, o Macondo se preferite. Io preferisco chiamarla come è scritto ovunque, e qui “Macondo”, è scritto davvero su ogni muro. Questà è la città perduta che scomparve portando con sè l’ultimo discendente della famiglia Buendia, nato con la coda di porco. Qui Ursula crebbe figli e nipoti, da queste parti Remedios la bella spezzò il cuore ad ogni uomo, e fu qua che Aureliano decifrò la profezia del mago Melquides. Questa è la cittadina della ferrovia, dove arrivarono gli zingari a portare il ghiaccio e le novità, quel luogo magico e maledetto di grandi sentimenti e puttane amorevoli, di buone maniere, promisquità e violenza. Qua attorno tutto può accadere, la magia non è superstizione, ma semplicemente esiste (e si sà); creature meravigliose muoiono alzandosi in volo, le persone incontrano i fantasmi e gli eroi non vincono mai, perchè la maledizione dei Buendia non risparmia nessuno. Da qui il colonnello partì perdendo ogni rivoluzione, ben 33; qui ebbe luogo la saga familiare più magica di sempre e qui tutto finì, inghiottito dal destino.
Marquez si ispirò ad Aracataca e a tutta la zona bananiera limitrofa quando scrisse Cent’anni di Solitudine, e a dire il vero, tolto qualche motociclo sganderato e un soffio di civiltà moderna, un po’ di quella magia si respira. Aracataca sembra davvero voglia prendere per mano Macondo, quella città fantastica, e darle la propria identità, lasciandole tutto, fino a dimenticare il proprio nome. O forse è solo ciò che immagino io.

Gli insetti di Macondo, arrivo a tarda notte

Preoccupato per l’arrivo a notte fonda e senza uno straccio di prenotazione, chiedo all’autista se sia il caso fermarsi ad Aracataca o sia meglio cercare ospitalità in una città più grande, dove le possibilità di trovare un alloggio non si riducono a luoghi di fortuna. Come immaginavo conferma che a Macondo non c’è nulla e mi consiglia di tentare la sorte a Fundacíon, un pueblo a 5 chilometri da Aracataca. Non lo vedo comunque convinto.
L’entusiasmo comincia a scemare, sto viaggiando da undici ore e l’ultima cosa che desidero è dormire in strada. Non ho più 20 anni. Vengo da San Andres, un’isola colombiana a largo del Nicaragua. Un aereo e due autobus mi hanno portato qui solo adesso, e se butta male non giungo a destinazione per 5 miseri chilometri. Domattina mi toccherà richiudere lo zaino, aspettare un mezzo e concludere un viaggio semplice in due di tempi. Se butta peggio mi toccherà trovare un buco dove coricarmi e contare le bestemmie per addormentarmi. In realtà un posto c’è ad Aracataca e ovviamente si chiama Hostal Macondo, l’ho letto da qualche parte, ma a quest’ora non aprirà le porte a nessuno, è da mettere in conto. Mi addormento e mi affido alla saggezza dell’autista.
“ARACATACA!” Apro gli occhi, raccolgo tutto e scendo al volo. L’autusta mi ha lasciato davanti a l’Hostal Macondo senza che io gli avessi menzionato nulla. È aperto e un tizio mi dà il benvenuto. Macondo ha deciso di aiutarmi, questa è la sua prima magia.
Va da dio, vedo un frigorifero e mi faccio stappare un Aguila, la birra che va per la maggiore in Colombia. Compilo le solite cazzate e mi siedo. Siamo all’aperto sotto un grosso portico e volano tutti gli insetti del mondo. In effetti queste sono le uniche luci accese in tutta la zona e ogni bestia della notte si riunisce qua per la propria dose di luce artificiale. Il posto è un cesso, mi aspetto una camera altretranto orribile e invece mi danno le chiavi di una stanza pulita e accogliente. Esco e faccio quattro chiacchiere col custode su Gabriel Garcia Marquez, ma in realtà parlo quasi da solo. Per terra è un cimitero di scarafaggi a zampe all’aria e preso dal vola vola generale mi sembra di avere ogni insetto addosso. C’è chi vola, chi plana, chi si posa, chi cammina, è una festa. Uno scarrafone volante si posa infine sulla maglietta del custode che non sembra dargli molto peso. Lo avviso della visita e con tutta calma lo toglie, ma solo perchè fa schifo a me. L’epilogo della giornata ha luogo quando l’uomo si schiaccia una zanzara sul dorso della mano e capisco che è ora di andare in camera. Le bastarde non mi avranno.

Macondo!

20170915_164111Deciso a cominciare la giornata prima possibile punto la sveglia alle 7. Penso che di buon mattino mi godrò Macondo con tutta calma ed in seguito mi rimarrà il tempo per organizzare il resto del viaggio. Sono motivato ed è importante non perdere ore preziose. Alla fine mi alzo alle 10, però il proposito era buono.
20170915_163927Nessun problema, caffè e uova preparate da una signora mi riempiono lo stomaco ed esco lo stesso motivato. Sono a Macondo cazzo, non ci credo. Mi sento addosso grande energia, sono felice. Cammino sul margine destro di una grande strada impolverata che ha l’aria di essere un arteria importante, dove automobili e motocicli passano ad alta velocità. In realtà siamo ai confini del villaggio e chi vi passa, a parte i ragazzi che vendono passaggi con le motorette, è diretto altrove. Uno di questi giovanotti arriva con un carico di coriandolo legato al portapacchi, l’odore inquina l’aria che diventa irrespirabile per circa tre secondi. Chiedo ad un vecchio come arrivare alla casa di Gabriel Garcia Marquez, lì sarò sufficientemente dentro Macondo per godermi la città. Pare che bisogna camminare un po’ e qui di comincio un gioco solitario, cercando di identificare i personaggi della famiglia Buendia man mano che incrocio persone.
20170915_165241Mi viene in mente Macondo Express, la canzone dei Modena City Ramblers. Sto ridendo da solo come il più scemo dei forestieri pensando ai Cent’anni e a tutto quanto mi riconduce alle vicende del libro. Sono in cerca dei Buendia, ma per ora mi accontento di entrare nella casa del Gabo.

La casa del Gabo

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20170912_120154-1512x2016Appena sull’angolo della ferrovia c’è una pittoresca sala da biliardo che al tempo dei Buendia poteva essere il puttanaio dove Jose Arcadio incontrava Pilar Ternera. Poco più avanti c’è la casa nativa di Gabriel Garcia Marquez.
Ad un tratto mi rendo conto che non ci sono turisti, che uno dei luoghi più magici d’America Latina sembra dimenticato. Non me lo spiego, Aracataca è molto di più che la città nativa del suo patron El Gabo. Forse non tutti sanno che Macondo esiste e si trova qui.
Pochi passi prima della casa di Marquez si avvicina un ragazzo che sembra autistico, ma forse non lo è. Mi chiede da dove vengo e ad un tratto, senza quasi prendere fiato, comincia a raccontarmi la storia di Aracataca dalla sua fondazione. Nessuno gli ha chiesto niente ma non sembra volersi fermare. Vorrei svincolarmi ma mi fa pena. Capisco che vorrebbe accompagnarmi nella casa ma non glielo permetto e lo driblo. Questo è un momento tra me e il Gabo. Se all’uscita il ragazzo sarà ancora lì, ci farò una chiacchierata.
Così sarà.

Il giovanotto macondiano

Non vi parlerò della casa in cui Marquez visse durante l’infanzia, è un salto nel tempo e chi avrà occasione lo farà. Questo è quanto, Macondo è la fuori. Ho firmato un libro degli ospiti e se qualcuno ci andrà cerchi il mio nome sul 12 luglio 2017.
Il ragazzo è lì ad aspettarmi, come immaginavo. È un po’ deluso. Me lo dice, voleva raccontarmi di Aracataca e Marquez perchè si annoia. Gli chiedo quindi di portarmi al murales del Gabo e di raccontarmi qualcosa. Mi parla quindi di alcuni edifici di Aracataca e di cosa fossero originariamente, della ferrovia, della zona bananiera, di Leo Matiz (il celebre fotografo colombiano), di Marquez ovviamente, della cultura e della geografia colombiana, della musica ed altro. È una miniera di informazioni, sa tutto di ogni angolo della città e pare che abbia una memoria sopraffina per le date e gli avvenimenti. Parla come Buba di Forest Gump e per questo dopo un po’ è ubriacante, ma resisto finchè mi balena nel cervello un ristorante che ho visto sulla calle per la ferrovia. Ciò che dice è interessante ma mi è venuta fame e lo invito a pranzare con me, glielo devo poretto. Sto giro lo porto io e gli indico la strada del ristoro che avevo addocchiato. Per 2 euro totali abbiamo ordinato due piatti sostanziosi di riso saltato e due bibite, incredibile. Il ragazzo, di cui purtroppo non ricordo il nome (forse non me l’ha detto), ha 29 anni se non erro e una volontà pazzesca, il pranzo è più che meritato. Per mangiare si spegne, ma finisce il riso quando io ancora non sono a metà e ricomincia a macinare parole. Ancora due chiacchiere su un vecchio cantante di vallenatos e mi svincolo. Pago, ringrazio il chico e gli allungo 5000 pesos per la gentilezza e tutte le preziose informazioni. Mi congedo salendo su un camioncino che porta a Fundacìon. Devo prendere il biglietto per Medellin.

Un po’ di magia coi bambini

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20170912_184525Sistemata la questione del biglietto torno ad Aracataca e mi perdo per qualche foto tra le vie. Mi fermo a guardare una partita di calcio tra bambini, seduto su un marciapiede accanto a due giocatori momentaneamente in panchina. Il campo è una stradina e le porte coincidono quasi col ciglio del marciapiede. Mi presento e appare una pallina dal nulla, il resto ve lo racconto con un paio di foto.
20170915_16270720170915_164221Sul calar della sera raccolgo le mie cose, carico lo zaino e prendo un camioncino per Fundacìon. Mi fermerò in una piccola stazione ad aspettare l’autobus per Medellin in ritardo di un’ora e mezza.
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