Sud America, magia e dintorni. 72 giorni tra le Ande

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Voli pindarici

È buio pesto, e in questo momento mi trovo su una strada sterrata di non facile percorrenza nei pressi del fiume Magdalena, attraverso una porzione di cordigliera completamente selvaggia, sulla rotta che collega faticosamente San Augustin a Popayan, due città coloniali nell’entroterra colombiano, a circa 12 ore sud di Bogotà. I trasporti locali faranno cagare, ma ci sono, si rompono ma li aggiustano, tardano ma arrivano, hanno marmitte che scoppiano ma camminano. Del resto non mi è nuovo, per lavoro e diletto l’America Latina mi ha accolto spesso, e facendo due conti, quasi 2 anni dei miei 35, li ho passati nel “nuovo mondo”, che di nuovo, almeno da queste parti, non ha mai avuto una sega.
Proprio oggi pensavo che in termini di tempo, ho trascorso circa metà della maturità viaggiando. All’inizio ne ho combinate di tutti colori, e prima di tarare l’entusiasmo con la coscienza ho dovuto fare le mie cazzate, ma in fondo è stato un passaggio fisiologico. Nel 2002 i miei genitori mi cercarono in Africa con la Farnesina, ed esortato a rimpatriare dai miei e dalla polizia, tornai indietro dopo mesi di inarrivabile serenità e fiducia in me stesso. Allora mi piaceva giocare, oggi a Cast Away, domani a Marco Polo, di tanto in tanto pagando l’entusiasmo con qualche batterio tropicale o verme sottopelle.
Da adolescente sono riuscito a farmi sequestrare da due trafficanti nella cittadina marocchina di Asilah, a sud di Tangeri. Allora ero in compagnia dell’amico Marco Travaini, di due crucchi un po’ sfigati e di un messicano di dubbia onestà (la storia ve la racconterò un giorno davanti a una birra, oppure chiedete al mio amico Marco, che di certo non ha dimenticato).
Permettetemi un’altra parentesi. Sin da bambino ho collezionato cose con un certo metodo. Raccoglievo fumetti, libri, monete, cartoline, sottobicchieri da birra, maschere, cimeli antichi, oggetti magici, locandine, biglietti ed altro ancora. Paradossalmente, il bello delle collezioni è non finirle mai, e solo oggi mi accorgo che i paesi del mondo sono un’altra meravigliosa collezione (ovviamente incompleta) che mi tiene sul pezzo da anni. Ad essere sincero non l’avevo ancora vista così, ma a volte la sensazione è esattamente quella di voler (e non voler) terminare una bacheca, un album di figurine, un mondo fatto di quasi duecento stati, di cui tra poco arriverò ad averne vissuti nientemeno che la metà, qualcuno per mesi, molti per alcune settimane o pochi giorni.
Tornando al “coche” che ci sta portando a Popayan, la strada sterrata che secondo l’autista avremmo percorso “solo un ratito” (ovvero per poco), si sta rivelando infinita. Del resto avevo pochi dubbi.
Ci siamo appena fermati nel nulla per pisciare, in una baracca di pietra con tetto in lamiera, una sorta di autogrill per i viajeros e camionisti di questa carretera, un cesso di posto che vanta orgogliosamente l’insegna “Restaurante y cafeteria 24 Hrs”. Sarà pure un cesso, ma la verità è che mi piace. Mi sarei fermato per bere qualcosa di caldo, ma l’autista ha fretta di ripartire. Ne approfitterò quindi per raccontarvi l’inizio di questo viaggio, sperando di arrivare a voi con la stessa intensità con cui proverò a esprimermi. Chi viaggia attraverso rotte come queste sa che non è facile descrivere alcuni stati d’animo, ma ci proverò comunque.
Premetto: sarò discontinuo, non vi saranno bollettini puntuali di questo viaggio, né resoconti quotidiani. Non scriverò un diario di bordo, ma soprattutto non ho intenzione di annoiarvi documentando tappa dopo tappa luoghi, incontri e scorribande. Come sapete posseggo un blog nel quale scrivo più o meno con costanza, ma non sono un blogger. Vi porterò quindi con me di tanto in tanto, attraverso una fetta generosa di Sud America, dalla Colombia alla Bolivia, passando per Ecuador e Perù, tutto in 72 giorni.
Buona lettura.

GIORNO 4: il Deserto della Tatacoa

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Perchè cominciare dal giorno quattro e non dal giorno numero uno, vi chiederete. Semplice. Perchè fino adesso non ho avuto nulla da raccontare.
Sono sincero, non tutti i giorni sono entusiasmanti con uno zaino in spalla, a volte si perdono giornate viaggiando, a volte sbagliando itinerario, e spesso si perdono giornate e basta, senza alcun motivo.
Ho sempre amato viaggiare da solo, ma viaggiare con Magali rende tutto molto speciale. Questo viaggio lo facciamo insieme, come del resto ne abbiamo fatti molti negli ultimi tredici anni. Magali sa adattarsi a tutto, non rompe le palle per il bagno, per il cibo, per l’igiene, per la crema, per il caldo, per il freddo. Quanto ha visto nella sua vita, l’ha potuto godere grazie al suo spirito di adattamento, luoghi che in pochi, maschietti compresi, riuscirebbero a raggiungere. Conosco uomini che millantano testosterone a volontà ma che appena fuori casa, senza il cibo dell’Esselunga e senza Champions sono prede di loro stessi.
Oggi Magali è un’esperta. Conosco gente che viaggia per professione e ancora non lo sa fare. Viaggiare è difficile in effetti e si impara spesso a proprio discapito. Ovviamente non parlo di partire per raggiungere un resort, attività per altro sacrosanta se vi aggrada. In tal caso più che di viaggiare si tratterebbe di “spostarsi” e di raggiungere un luogo di sollazzo più o meno simile in ogni paese del mondo. Un’esperienza ricreativa e dilettevole, divertente a tutti gli effetti, ma che nulla avrà mai a che fare col viaggiare.
ok, basta con le parentesi graffe, torniamo al nostro quarto giorno di viaggio, il primo degno di nota dopo aver lasciato Bogotà. Non che esista un vero e proprio itinerario, ma il deserto della Tatacoa è stato un fuori programma dettato da una personale curiosità, scelta che in effetti rifarei senza indugio.
Arrivati a Neiva al buio, acquistiamo riso e fagioli da asporto (in quattro giorni non abbiamo mangiato quasi altro), e con fortuna saliamo su un “collectivo” per Villavieja, cittadina fondata nel deserto. Decidiamo di allungare qualche soldo in più e chiediamo all’autista di inoltrarsi fuori città e di percorrere il deserto fino al rifugio di un certo Marquez, una tenuta riportata dalla guida.
Arriviamo. Un giovane ci mostra la camera e va a dormire. Due pappagalli, un amazzone e un esemplare simile ad un Ara in miniatura, ci guardano dal tetto. Dal freddo di Bogotà, in circa sette ore di viaggio, posiamo quindi i bagagli in un alloggio di pietra e lamiera che superava i 30 gradi notturni. Bagnamo un asciugamano, lo posiamo sul ventre e ci addormentiamo sotto la zanzariera, immancabile compagna di mille rotte. Fuori un cielo di stelle che solo nel deserto è possibile ammirare così fitte e luminose, ma la stanchezza, giunta alle 9 di sera, ha decisamente la meglio.
Allarme alle 7, svegli da poco una bestia emette un suono che pare l’allarme di un appartamento. “Che cazzo di animale è?”. Fuori un pavone faceva lo smargiasso sul tetto. Ma cosa ci fa un pavone sul tetto, non sapevo che i pavoni volassero.
I miei polmoni riescono a catturare aria normalmente, e la sensazione che avevo a Bogotà di non godere di pieno ossigeno è sparita. Sarà che sono molto sensibile all’aria rarefatta e i 2640 metri della capitale mi hanno provato più di quanto mi sarei aspettato. In realtà sono un po’ preoccupato perchè nel viaggio si prospettano città ben più alte, ma è un problema che affronteremo a tempo debito. Il deserto da questo punto di vista mi è amico e per ora non voglio darci peso.
La ragazza della tenuta mi prepara 2 chili di uova strapazzate e cafè con leche, tra poco cagherò fino ad annullarmi completamente nel cesso (lo sciacquone per altro non va). Magali, la principessa, mangia la mia tortina di queso comprata il giorno prima, il vassoio di uova lo mangerò solo io e per due giorni porterò in giro un’arma chimica.
Arriva Marquez, il padre, un sessantenne col fisico massiccio che vanta articoli di giornale incorniciati in cucina, articoli che parlano di lui. Ci chiama una guida, un suo amico che ci avrebbe condotti nel deserto. In effetti eravamo lì per quello, nessuno si ferma da Marquez per godersi un tetto in lamiera. Nel frattempo uno dei pappagalli comincia a ripetere che vuole del cacao e imita fedelmente, e per cinque minuti buoni, le risate di una donna, probabilmente la ragazza delle uova.
Fuori promette bene, nonostante i recinti degli animali di Marquez impediscano di vedere oltre. Nel frattempo arriva una scolaresca in visita, probabilmente una ciurma di mocciosi della primaria di Villavieja. Cominciano a parlare con uno dei due pappagalli, lo stesso che voleva del cacao, mentre l’altro, decide di farsi i cazzi suoi ed evitare i bambini. Ottima scelta.
Io invece tiro fuori un po’ di magia e in tre secondi a nessuno frega più una sega dell’amazzone parlante. Leo – pappagallo 1 – 0.
Marquez sorride ma non si scompone. È curioso, vorrebbe avvicinarsi e guardare cosa succede all’interno della capannella di mocciosi intorno al mago, ma Marquez è un uomo che “non deve chiedere mai” e rimane al suo posto.

Deserto grigio e deserto rosso

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Arriva la guida, un vecchietto paciarotto che fa tenerezza solo a guardarlo. Se questo ci deve difendere dalle insidie del deserto siamo a posto. Inoltre mi aspettavo un jeeppone 4×4, ma quando il vecchio ci conduce al mezzo ci presenta una specie di Ape, simile ai tuc tuc che si trovano nel sud est asiatico. La differenza è che tra Vietnam, Cambogia e Thailandia vi sono pianure di riso. Come avrà intenzione di condurci là fuori? Penso nessun problema, il vecchio saprà il fatto suo.
L’itinerario è fondamentalmente diviso in due, una zona desertica dall’aspetto grigio e stepposo e una zona completamente rossa, simile ai canyon americani. Con l’Apetta ci inoltriamo quindi verso l’interno, un deserto di cactus circondato dalla cordigliera, uno spettacolo che non ha eguali. Dopo circa venti minuti ferma il mezzo e ci annuncia quaranta minuti di cammino, con l’Apetta non si va da nessuna parte. Immaginavo.
Il percorso si annuncia fin dall’inizio una meraviglia, e gran parte del cammino si apre tra formazioni che migliaia d’anni prima erano ricoperte d’acqua. Lo spettacolo è infatti dovuto alle sculture che l’acqua ha formato ed ha lasciato ritirandosi, “opere” che i locali chiamano spesso col nome di animali, a seconda della forma che hanno assunto nei millenni. Molto suggestivo è il passo in cui decine di “fantasmi” (le forme richiamano effettivamente molpeplici spettri) percorrono i fianchi del sentiero naturale, che ad un certo punto, magicamente, riporta all’inizio.
Nulla però è paragonabile al deserto rosso che si estende da lì a pochi chilometri. Con la guida riprendiamo quindi l’Apetta e raggiungiamo ciò che sembra essere un vero e proprio labirinto di formazioni affusolate composte da terriccio rossastro solidificato. Mi chiedo come possa essersi conservato nei millenni, scendiamo e proseguiamo a piedi, mi distraggo e rimango indietro, mentre Magali ascolta certamente il vecchio parola per parola, sputo dopo sputo.
Li raggiungo mio malgrado, faceva caldo ma le nuvole schermavano un sole del mattino non ancora prepotente. Il vecchio ci dice più volte che siamo fortunati perchè in condizioni differenti il deserto sarebbe un inferno. Mangiamo i frutti fuxia di qualche cactus (ma nessuno sballa, sarà per un’altra volta) ed usciti dal labirinto il vecchietto si piazza su una formazione a picco su un burrone. Con le mie proverbiali vertigini, che scattano anche guardando gli altri davanti ad altezze più o meno pronunciate, lo riempirei di botte sino a toglierli una ventina d’anni. Mi fa paura. Magali nel frattempo mi prende per il culo per la fifa dell’altezza (come al solito), ma io me ne fotto, e comunque al burrone non mi avvicino. Ovviamente le grido di allontanarsi dallo strapiombo. Lei ride e io mi incazzo.
Le foto non potranno mai rendere quanto la realtà, e di fatto neanche le mie parole. Concludendo, ed invitandovi ad osservare quanto sono riuscito ad immortalare col cellulare, il deserto della Tatacoa è una zona selvaggia ancora sconosciuta al turismo, un luogo arido con cui è meglio non scherzare. A dire il vero non mi aspettavo tanta bellezza, ero curioso ma l’avevo decisamente sottovalutato. Occhio però, non fatene parola con nessuno, teniamocelo per noi e che questo scorcio di mondo rimanga un luogo fuori da ogni rotta turistica.
Alla prossima.

Qualche foto da sbirciare

Non ritoccherò le immagini per renderle più appetibili e colorate.

Ps: l’immagine in alto in evidenza è una foto scattata durante il viaggio tra Neiva e San Augustin, giuro che non ha subito alcun ritocco. A giorni pubblicherò il resto del materiale fotografico del viaggio tra le Ande colombiane che toglie il fiato, la rotta che collega Popayan, Ipiales e Quito.

Il resto delle foto sottostanti invece, se avete letto con attenzione, le riconoscerete ;-).

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