Il detective sensitivo, l’aneddoto del fachiro e del Conte italiano a bordo della Baron Beck

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Il conte Mantegazza e l’incantatore di serpenti

 

PREMESSA
Sarà che sono nuovamente in giro da un po’, e che in testa ho poco altro, a parte questo dolce vagabondaggio, ma le storie e gli aneddoti di viaggio mi colpiscono sempre dritto come un cecchino. Attualmente mi trovo su una piccola isola colombiana ed oggi ho aperto uno dei libri che mi sono portato. Normalmente ci si porta un libro per non fare nulla o per studiare. A me piace studiare, che in definitiva rimane un dolce far nulla.
La seguente storia non è stata elaborata dal sottoscritto, ma solo ricopiata di pugno, parola per parola, dal libro “Il Mago di Hitler” di Mel Gordon, biografia del più grande mentalista, a mio parere, di tutti i tempi, l’ebreo Erik Jan Hanussen. Leggendo il libro mi ha particolarmente colpito l’aneddoto del Conte italiano e del fachiro, e qui voglio riportarlo pari pari. Probabilmente maghi e mentalisti con una certa sensibilità (e che conoscono il mago ebreo amico di Hitler), potranno godere a pieno della vicenda. I lettori “non maghi” e chi non conosce Jan Hanussen, apprezzeranno semplicemente un simpatico racconto. Che questo passaggio della biografia sia tutto vero o leggermente condito di eroismo, poco importa. La vita di Jan Hanussen ha dell’incredibile, capitolo dopo capitolo, fino al suo tragico assassinio.Sarà che sono nuovamente in giro da un po’ e che in testa ho poco altro, a parte questo dolce vagabondaggio, ma le storie e gli aneddoti di viaggio mi colpiscono sempre dritto come un cecchino. Attualmente mi trovo su una piccola isola colombiana ed oggi ho aperto uno dei libri che abitano il mio zaino. Normalmente si portano in viaggio per non fare nulla o per studiare. A me piace studiare, che in definitiva rimane un dolce far nulla.
La seguente storia non è stata elaborata dal sottoscritto, ma solo ricopiata di pugno, parola per parola, dal libro “Il Mago di Hitler” di Mel Gordon, biografia del più grande mentalista, a mio parere, di tutti i tempi, l’ebreo Erik Jan Hanussen. Leggendo il libro mi ha particolarmente colpito l’aneddoto del Conte italiano e del fachiro, e qui voglio riportarlo pari pari. Probabilmente maghi e mentalisti con una certa sensibilità (e che conoscono il mago ebreo amico di Hitler), potranno godere a pieno della vicenda. I lettori “non maghi” e chi non conosce Jan Hanussen (“Harry” nella vicenda), apprezzeranno semplicemente un simpatico racconto. Che questo passaggio della biografia sia tutto vero o leggermente condito di eroismo, poco importa. La vita di Jan Hanussen, ha dell’incredibile, capitolo dopo capitolo, fino al suo tragico assassinio.

Il detective sensitivo


Prima di salire a bordo, Harry vide i rappresentanti dell’alta società sui ponti superiori e decise di procurarsi una cabina di prima classe. Informò il capitano di essere nientemeno che il celebrato
baritono italiano Titta Ruffo, della Scala di Milano. L’ingenuo capitano della Beck, impressionato dall’inatteso colpo di fortuna, accettò l’offerta di Harry di tenere una serata musicale in cambio di una traversata di livello più alto. Titta-Harry fece un rapido calcolo a mente e disse al capitano che lo spettacolo avrebbe avuto luogo la quinta e ultima sera di viaggio. Harry aveva quindi ripreso la sua solita condotta sul filo del rasoio. Avrebbe escogitato qualche soluzione elegante per coprire la propria assurda finzione prima dello spettacolo, magari un’affezione alla gola.
In uno dei ponti inferiori alloggiava un passeggero esotico, un fachiro dell’India orientale. Si diceva che fosse in viaggio per Vienna, dove lo attendeva un ingaggio presso l’Apollo Theater. L’indiano portava invariabilmente con sé una cesta di vimini a forma di favo. Vi teneva tre serpenti velenosi, che nutriva di topi vivi sotto
gli occhi dei passeggeri. L’indiano non faceva mistero alcuno del fatto che il morso di quei rettili fosse letale; un unico morso
avrebbe significato una morte istantanea e orribile. Quando il fachiro dagli occhi di fiamma si avvicinava al ponte di prua con la
sua cesta, i passeggeri di seconda classe si tenevano alla larga.
Il capitano venne a sapere di quel pericoloso carico e ordinò al fachiro di sbarcare prima possibile, cioè la sera successiva a Corfù.
Harry aveva notato altri passeggeri particolari a bordo dellà Beck. In prima classe C’era per esempio il conte Mantegazza, un affascinante bon vivant che sembrava parlasse ogni lingua, conoscesse ogni città e vestiva con cura abiti immacolati. Al suo fianco c’era sempre un onnipresente, discreto maggiordomo. In
sala da pranzo il conte e il suo maggiordomo costituivano il centro d’interesse sia del capitano sia dei suoi passeggeri d’élite.
Quasi tutti gli ospiti della prima classe sgomitavano per poter stare seduti vicino all’abbagliante affabulatore italiano. E ogni volta che oggetto della conversazione era l’opera, o la musica in generale, il consumato esteta Mantegazza faceva l’occhiolino con aria competente a Titta-Harry e si informava sulle condizioni di salute vocale del baritono, che erano evidentemente in declino. (in ogni occasione pubblica Harry faceva la sua apparizione con una pesante sciarpa annodata attorno al collo.)

La sera prima che la Beck attraccasse a Corfu la scandalosa storia del fachiro e del suo cesto animava la conversazione al tavolo del capitano, durante la cena. Prendendo spunto dai timori delle signore dell’alta società, il conte Mantegazza fece una proposta provocatoria: il recluso orientale avrebbe ofterto un ultimo spettacolo sulla passeggiata, dove chiunque avrebbe potuto vedere la fantastica danza dei serpenti al ritmo ipnotico del flauto del fachiro. Sarebbe stato un gradevole contrasto col serio
concerto a cappella che sarebbe seguito, asserì il conte.
Il capitano aveva delle perplessità, ma i passeggeri di prima classe, e specialmente le signore, si fecero presto convincere dal
dandy amante del divertimento e insistettero in favore del pericoloso intratterìimento, nonostante i timori espressi in precedenza. Il capitano mandò quindi il commissario di bordo a
informare  l’indiano di questo nuovo progetto e ordinò che sul ponte di passeggiata venissero approntati sdraio e luci colorate per la sera successiva.

Il giorno dopo il conte era di umore particolarmente brioso. Quando il sole del Mediterraneo stava per tramontare, ed era arrivato il momento dello spettacolo con i serpenti, egli incantò i distinti ospiti della Beck con aneddoti umoristici sui suoi viaggi
nell’Asia meridionale e in Estremo Oriente. Improvvisamente apparve l’indiano che era stato esiliato in cabina. Era un uomo di una bellezza inconsueta, con luminosi occhi scuri incastonati in un volto dal perfetto incarnato bronzeo. Il fachiro salutò gli
stupiti spettatori in stile hindu e tornò sottocoperta a recuperare
la cesta con i rettili. Tutti sedevano immobili in attesa.
E poi tutto ebbe inizio.
Prima un grido orribile da sotto il ponte. Poi il rumore sordo di passi in fuga frettolosa, come di qualcuno preso dal panico.
Risuonarono degli ordini strozzati. Infine emersero dalle scale due marinai terrorizzati. L’indiano si fece strada tra di loro e gridò alla folla perplessa che le vipere velenose erano scappate.
Le persone raccolte sul ponte rimasero paralizzate sulle loro sedie a sdraio per una frazione di secondo. Poi fu l’inferno. Un paio di matrone strillarono isteriche, mentre cercavano una postazione sopraelevata. Gli uomini si precipitarono alla ricerca di

possibili vie di fuga, mentre il capitano fissava muto l’indiano, in stato di shock.
Solo il conte Mantegazza seppe mantenere la calma. Rassicurò i passeggeri terrorizzati che le vipere velenose preferivano ambienti scuri e umidi e che probabilmente non si erano allontanate di molto dalla cabina dell’indiano. Purché i passeggeri rimanessero sotto le forti luci che illuminavano il ponte e non facessero rumori invitanti, non avrebbero avuto niente da temere.
Calpestare uno dei serpenti o irritarlo in qualche modo avrebbe sollecitato una reazione mortale. Quindi nessuno doveva muoversi. Nessuno.
Poi il conte chiese una ciotola di latte tiepido, che uno steward tremante procurò subito. L’indiano doveva portare con sé il proprio flauto e attirare le pericolose creature fuori dai loro nascondigli sul secondo ponte. Il fachiro, quasi rigido per lo shock subito, fece col capo un cenno di conferma. Il conte Mantegazza promise al capitano di ritornare entro un quarto
d’ora con i rettili. Tenendo in mano la ciotola di latte e col fachiro quasi imbambolato alle spalle il conte aprì furtivamente il portello del boccaporto e prese a scendere con attenzione le scale. Si girò un’ultima volta per rivolgere un sorriso abbacinante agli ammiratori paralizzati, quindi scomparve al piano inferiore.
All’inizio ognuno commentò con entusiasmo la temerarietà e l’ingegnosità del conte. Alcuni degli uomini, però, si chiesero se la fiducia che dimostrava in se stesso fosse malriposta o imprudente ed eccessiva. Il capitano porse le proprie umili scuse per aver mal gestito quell’evento potenzialmente disastroso. Solo Harry non diceva niente.
Passarono dieci, poi quindici minuti. Un silenzio spettrale sopraffece i festaioli, Si udivano solo il monotono ribollire del mare contro la chiglia e il rombo sordo dei motori della nave. Gli uomini e le donne in abito da sera si erano trasformati in statue come vittime di un incantesimo.
Il conte Mantegazza aprì la porta con gesto plateale. Alle sue spalle la cesta a forma di favo. Tergendosi il sudore dalla fronte,
Mantegazza sollevò il contenitore e lo appoggiò pesantemente su uno dei tavoli illuminati dalle luci colorate. I serpenti erano stati catturati e messi al sicuro nella loro cesta. La folla applaudì quell’uomo pieno di risorse che Ii aveva salvati. Il conte, raggiante, si offrì di mostrare i rettili fuggiaschi; ma il capitano abbaiò all indiano di rimuovere all’istante quelle orrende creature dal ponte della sua nave.
Le luci di Corfu scintillavano alle spalle dei partecipanti alla serata. La lussuosa nave da crociera si stava avvicinando alla costa. Entro dieci minuti, la Baron Beck avrebbe attraccato e si sarebbe liberata di quel fachiro pasticcione e dei suoi velenosi animaletti. Solo Harry protestò a quella prospettiva, insistendo perché il conte e l’incantatore di serpenti restassero e lo spettacolo potesse aver luogo.
L’espressione di Mantegazza cambiò di colpo. Quando Harry si mosse verso il tavolo, il fachiro estrasse uno spadino che portava nascosto sotto il perizoma. Harry lo colpì al viso prima che l’uomo potesse servirsene. II conte gridò con voce roca che
Harry era un imbroglione, che non era Titta Ruffo. Harry ammise la sgradita rivelazione, spiegando di non essere un baritono
più di quanto Mantegazza fosse un visconte italiano.
L’epilogo fu sorprendente. Harry sollevò il coperchio della cesta e ne estrasse tre vipere che si contorcevano. Gli astanti, atto-
niti, trattennero il respiro. Secondo quanto Harry spiegò, si trattava di comuni bisce d’acqua. L’unica cosa che le rendeva diverse
dalle loro sorelle che vivevano nei comuni giardini era la loro dieta, insolitamente ricca. Mentre parlava, Harry infilò la mano
libera nella cesta e ne estrasse un groviglio nel quale si distinguevano orologi d’oro, una spilla di diamanti, una croce d’oro e
due pugni di gioielli e pietre preziose assortiti.
Diverse persone presenti tra il pubblico del ponte di passeggiata riconobbero tra quei valori i propri. Mantegazza e l’indiano avevano saccheggiato valigie e bauli riposti nella stiva di prima classe durante il quarto d’ora di caccia al serpente. Il capitano ordinò I’arresto immediato dei due ladri e del loro complice, il maggiordomo.
Harry era un eroe, per la seconda volta nella sua vita.
Mentre la Baron Beck attraccava, Harry descrisse il proprio metodo investigativo. Il fachiro indiano trasudava un odore strano ma familiare: era l’inconfondibile odore di uno speciale cosmetico teatrale, un tipo di cerone che gli attori usavano per tingersi la pelle di un tono più scuro per inpersonare ruoli di asiatici o aborigeni. Qualche giorno prima Harry aveva sorpreso l’indiano in una delle docce, mentre si spalmava la tinta sulla parte superiore del corpo. Sulla spalla sinistra dell’uomo, non ancora scurita, spiccava un tatuaggio Jenisch. Quell’uomo era uno zingaro, e con tutta probabilità un attore disonesto.
Qualche tempo dopo, durante la crociera, una ragazza di Dresda aveva chiesto a Titta-Harry di firmarle il libro degli autografi. Harry aveva notato che le firme dell’indiano e del conte Mantegazza erano curiosamente simili e appartenevano entrambe a persone mancine. Ciò aveva suscitato la curiosità dell’esperto teatrante. Non aveva mai sospettato che Mantegazza fosse qualcosa di diverso da chi asseriva di essere, tuttavia aveva deciso di indagare un po’. Si poteva essere abbastanza sicuri che anche sulla spalla del conte si sarebbe potuto trovare un tatuaggio Jenisch, nonostante eventuali tentativi
chirurgici per rimuoverlo o nasconderlo. Infine Harry era riuscito a determinare I’identità dei due. Erano i fratelli Pirelli,
una coppia di criminali che una voìta lavoravano come acrobati nel circuito circense dei Balcani. Ma era stata inviata di
festival in festival una comunicazione che avvisava i proprietari dei diversi circhi delle loro depravate attività. Harry ne ricordava i sorrisi esuberanti e gli occhi splendenti. Per di più fin dai primi giorni trascorsi al Circus H. Harry era a conoscenza del fatto che l’incantamento dei serpenti era un imbroglio assoluto: infatti i rettili non hanno udito né percepiscono vibrazioni musicali; seguono solo i movimenti del flauto per
istinto di difesa. Qualunque piano coinvolgesse un flauto e il
recupero di serpenti velenosi, oltre tutto al buio, presentava gravi pecche. Harry sapeva bene che le temibili vipere del fachiro erano più o meno innocue.
I passeggeri rimasero incantati dalla spiegazione di Harry.
Era una situazione più eccitante di una storia di Arthur Conan Doyle o di un gioco di prestigio da music-hall. I più ricchi tra i
presenti si riunirono e sborsarono una cifra considerevole in corone austriache come segno della loro gratitudine. Il capitano
volle conoscere il vero nome di Harry e della signora che lo accompagnava. H.B. Marinelli, un impresario di Broadway, porse
al detective dilettante un biglietto da visita e lo incoraggiò a intraprendere una carriera nel varietà come sensitivo comico o
grafologo improvvisato.
Harry ridacchiò ma conservò il biglietto. (Dodici anni dopo Harry si sarebbe fatto vivo nell’ufficio di Marinelli, a New York,
per ricordargli l’invito.)

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